giovedì 8 marzo 2018

Piccoli uomini e uomini piccoli




La festa della donna è sempre un buon giorno per riflettere sul nostro ruolo, su come siamo, su come la società ci vede.
Quest’anno la mia riflessione scaturisce da un recente e tristissimo fatto di cronaca.

Poco tempo fa un uomo ha sparato a sua moglie, si è barricato in casa di lei e ha ucciso anche le loro figlie, prima di puntare la pistola su se stesso e farla finita.
Tralascio tutte le considerazioni sul fatto che l’uomo in questione fosse appartenente alle forze dell’ordine e che abbia realizzato quello scempio con una pistola di ordinanza che forse, a conti fatti, sarebbe stato il caso non avesse più. Di questo mi aspetto e spero che qualcuno risponda, ma nulla toglie o aggiunge al fatto in sé.

Le mie considerazioni sono altre e partono dalla triste constatazione che nell’ambito della violenza sulle donne stiamo ancora sbagliando tutto, purtroppo.

Non esistono “ma” e non esistono “se”: la violenza di genere va condannata con forza, sempre e comunque. Non ci sono attenuanti possibili per chi la commette.
Fin qui, a parole, tutto condivisibile e largamente condiviso. Eppure, proprio a partire (al solito) dai mezzi di informazione l’accento cade sempre (e nell’ultimo caso di cronaca l’ennesima conferma) sulla cosa sbagliata: lei aveva chiesto la separazione (eh, immaginiamo un attimo il perché), lei gli teneva lontane le figlie (anche qui: chissà per quale motivo), lei lo aveva cacciato di casa.
Un modo di presentare le cose che vede la donna se non colpevole sicuramente corresponsabile dell’accaduto. Eh, ma anche no.

Altri commenti che ho sentito in proposito sono stati del tipo “non lo aveva denunciato” (come se questo la rendesse, ancora una volta, complice). Vero eh, aveva presentato, pare, un esposto. Un esposto non mette in atto misure protettive come una denuncia, è bene che si sappia. Ma perché allora molte donne non denunciano?

Una denuncia stravolge la tua vita, la cambia, squarcia il velo e permette a tutti di vedere la tua vita, di analizzarla, criticarla, giudicarla.

Devi avere forza, una forza incredibile, per accettare tutto questo. Devi essere convinta, non devi aver paura di rovinare la vita di un altro. E se sei una persona cui qualcuno sta rovinando la tua, di vita, diventa paradossalmente più difficile, anche se l'altro è proprio chi ti sta facendo del male. Essere carnefice del tuo carnefice è pesante, ti mette in un certo modo (ingiusto e sicuramente "malato") sullo stesso piano.
Mettere nero su bianco, firmare un'accusa pesantissima, richiede un coraggio non indifferente... Ma lo capisce solo chi lo ha vissuto. Io per esempio lo capisco benissimo, e sono una di quelle che per tanti motivi non ha denunciato e non passa giorno che non se ne penta (non fosse altro che per aver potuto, potenzialmente, evitare che quella persona facesse del male ad altre).

Da dietro a una tastiera o da davanti ad uno schermo, sembra quasi impossibile che una donna non denunci chi sistematicamente le fa del male. Eppure spesso è così. Perché una donna che subisce molestie o violenza, o viene picchiata, o è vittima di stalking è una donna vinta, fragile, che ha anche bisogno di mentirsi e dirsi che va tutto bene. È una pasta malleabile nelle mani sbagliate, è ridotta al rango di “qualcosa” più che di “qualcuno”, con tutto ciò che sulla propria forza, volontà e capacità di agire questo possa comportare.

Anni fa, tanti, aprii lo sportello di un armadio, quello in cui mia nonna teneva le medicine. Ne presi alcune, a caso. Poche, tante, non ricordo.
Quello che ho capito molto tempo dopo è che non volevo veramente morire, volevo solo non esistere, volevo solo che tutto finisse. Non ero pronta a raccontare la mia verità, non ero capace ad uscire da una situazione orrenda e bastarda, non ero capace di farmi aiutare, non ero capace di capire che non era colpa mia... Ma volevo solo pace, volevo addormentarmi e scoprire che no, non stava accadendo a me. Quelle pasticche non erano neanche una richiesta di aiuto, erano il solo modo che vedevo per far finire qualcosa più grande di me, che non sapevo gestire.
Quelle medicine ovviamente non mi fecero nulla, ma nulla nulla, chissà poi cos'erano. Ma quel nulla pesò come una sconfitta, e una condanna. Mi fece capire che non sarebbe finita mai, se non attraverso una mia volontà. Che la strada forse più facile non era quella giusta, che dovevo affrontare il demone. E lo affrontai, ne uscii in qualche modo, ma ne uscii con un senso di colpa che mi ha tenuto gli occhi bassi per troppo tempo. Ne uscii portando a casa la pelle e affrontando giudizi dal peso specifico del piombo. Per bilanciare quel peso ho dovuto mettere un peso addosso che non mi esponesse, che mi ponesse al riparo dal desiderio altrui. Ero una sopravvissuta, ma ero vista anche diversamente da chi fino a poco tempo prima non mi aveva neanche mai calcolato. Anni bui, di cui ricordo un velo di estrema solitudine e non comprensione, con un sottofondo costante e sfumato di inadeguatezza e sensi di colpa. Per tanti, ero io la puttana.

Ci sono grandi responsabilità sociali, dietro alle violenze di genere.
C'è una società pronta a concedere le attenuanti del "ma" e le corresponsabilità dei "se". C'è una società che giudica, che scandaglia, che rovista nel torbido con morbosità e senza empatia, pronta ad entrare nella tua vita, nelle tue mutande, nei segni che hai addosso senza sporcarsi le mani a fare qualcosa di concreto: perché se tocchi la merda le mani te le sporchi e devi prendere una posizione netta e concreta, la stessa che a parole è facile.
C'è una società che condivide parole, video o foto che possono danneggiare la vita di un altro, senza chiedersi che impatto il loro gesto potrà avere su quella persona.

Ho sempre voluto avere figli maschi. Credo che da una parte derivasse dalla paura che ad una mia figlia potesse succedere quello che è accaduto a me, mentre dall'altra ci fosse un bisogno inconscio di educare delle figure maschili al rispetto che mi è mancato.
È con la nascita dei miei figli che ho accettato che non potevo cambiare cosa era successo a me, ma ho capito contestualmente che avevo l'enorme potere di fare in modo di educarli ad una vita migliore, in cui una donna non venisse vista come ero stata vista, e vissuta, io.
Che potevo renderli consci del valore della vita umana e di quanto le loro azioni potevano incidere sull'esistenza altrui.

È questa la grande sfida di noi genitori: questo continuo insegnare, raddrizzare, volgere al positivo, dare spunti, limiti e tracciati per fare dei nostri figli uomini (e donne) migliori e più consapevoli di quelli (e quelle) che li hanno preceduti. L'insegnare a non conformarsi a modelli forse più popolari ma non per questo più giusti. Dare loro un senso morale e profondo, in cui collocare il rispetto per sé stessi e per tutti coloro che li circondano... Senza compromessi, senza i "se" e senza i "ma".

mercoledì 15 novembre 2017

Rinascite, ritrovamenti e percorsi




Un anno fa iniziava una nuova fase della mia vita. E iniziava con una sala operatoria e tanta paura.
Rinascita, la definiscono alcuni. Io la definirei riappropriamento di una me stessa che (mi) mancava da tanto, troppo, tempo.
 

Il più bel complimento ricevuto in questi mesi è stato “Non sembri un’altra… Sei finalmente proprio tu”. Nulla di più vero.

Strano come il cambiamento di immagine corporea influisca sulla percezione che si ha di sé stessi. E no, non sono i 48 kg in meno, quello è un dato oggettivo… il grosso cambiamento è l’essere a proprio agio con quella che si è.
E no, non è affatto scontato: non è la prima volta che faccio una dieta, non è la prima volta che dimagrisco parecchio.
È la prima volta, però, ed è questo che è degno di nota, che ciò non comporti un tremare di gambe e una paura indefinibile di fronte ad un complimento, uno sguardo. È la prima volta che non temo un obiettivo puntato. Si direbbe che sia quasi diventata esibizionista, rispetto a prima… la verità è che questa condizione è la mia normalità e come tale la vivo. Certo, chi mi conosce non ha mai conosciuto questa Francesca, a meno di pochissime persone con cui vanto un rapporto almeno trentennale.

La Francesca che oggi appare è quella che sarebbe stata se in un caldo agosto di 27 anni fa non le fosse accaduto nulla. Con più consapevolezze, attraversando mille e mille mari in tempesta, oggi la Fra è quella che è interiormente da sempre, con una libertà che teme meno di quanto non fosse abituata a fare. Con meno barriere tra sé stessa e il mondo, con meno bisogno di barriere. Ma una Fra ben consapevole di non essere “arrivata”, perché la lotta contro il volersi male, o piuttosto il non volersi bene, è qualcosa di molto complesso e vasto e non sono così ingenua da pensare che questo basti, soprattutto ora che la vita mi ha posto nel piatto complicazioni e cose completamente inattese da affrontare. Il volersi bene non è il punto di arrivo, ma il percorso. Per questo la consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si è stati è fondamentale.

Molte persone che hanno fatto il mio stesso percorso dicono spesso “lo avessi fatto prima”; io credo semplicemente che ogni cosa nella vita, e questa non fa eccezione, arrivi quando si è pronti alle conseguenze, quando è il momento giusto tra maturità e crescita personale. Quando si accetta di prendere una strada e si è pronti a mettersi in discussione se serve, a perdonarsi debolezze e umanità, a lasciar andare pesi che nulla hanno di fisico.

Ecco, dopo un anno, un anno bello tosto e onestamente mai facile, è questo il punto in cui sono. Che è un punto che non conoscevo e che mi ha portato inaspettatamente a riconoscermi.
Non è poco, non è affatto poco.
La sensazione di potermi giocare la vita con libertà è qualcosa che non sperimentavo da quando avevo 13 anni: poco dopo il mondo mi dimostrava che quella libertà per me sarebbe stata una conquista, e lo faceva con brutalità e senza sconti.
Non me ne fa tuttora, di sconti, peraltro. Ma oggi ho 41 anni e la capacità di affrontarlo e accettarlo, senza il dramma che mi sconvolse invece allora.

È per questo che l’intervento non è mai stato il fine, quanto il mezzo. Che non mi ponevo aspettative, che non avevo fretta di farlo quanto una paura fottuta che mi portasse in luoghi dove non ero pronta a stare.
Oggi dico con serenità che questo è esattamente il posto di me stessa in cui voglio stare.
Sono stata brava, sì. Ma non a dimagrire quanto a non perdermi, a lottare, a non accettare le scorciatoie classiche ai problemi, a vedermi cambiare, ad accettarmi cambiare.

L’intervento non è, né mai lo sarà, una bacchetta magica. Per questo non mi sento arrivata, per questo per la prima volta nella mia vita l’importante non è nell’obiettivo quanto nel percorso quotidiano, nella scelta che faccio ogni giorno.
La Francesca di un anno fa non mi manca, mai. Preferisco quella combattiva di oggi che la larva rilassata di un anno fa. Preferisco quella che oggi sa dire “non ce la faccio” a quella che faceva ogni cosa accumulando stanchezza e frustrazione per colmare il vuoto tra se stessa e il mondo.
Quel vuoto oggi non c’è e spero non torni più, lavoro affinché sia così, ogni giorno.

Non è facile, ma è quello che mi rende oggi una persona migliore, al di là di ogni kg perso.
L’importante non è perdere, è ritrovare. Questa è la grande scoperta di quest’ultimo anno e anche questa no, non era affatto scontata.

lunedì 4 settembre 2017

Nuotare, tra le onde






Mesi complessi, duri, fatti di tante cose che si sono incastrate, alcune bene e altre anche decisamente male.

Se questo 2017 doveva insegnarmi qualcosa, è stato l’imparare a non dare nulla per scontato: i rapporti, le presenze, l’amicizia, il lavoro, la forza fisica, l’immagine corporea.
Un duro colpo per chi, come me, programma sempre tutto, ama giocare d’anticipo, pianta paletti anche nei punti impervi per darsi certezze da cui ripartire.

Quest’anno mi ha insegnato, finora, che la certezza fondamentale sono io, oggi, qui, subito, in questo istante. Che tutto può cambiare e può cambiarmi, ma fino ad un certo punto.
Che esiste un’essenza che devo imparare a riconoscere e difendere ad ogni costo, perché quella essenza sono io e non c’è nulla, nulla, che debba toccarla e che sia più importante. Che sia il mondo che vuole esserci, ad adattarsi a quell’essenza, se vuole veramente, se penserà che ne vale la pena. Per me la vale, sempre.

Questi mesi mi hanno insegnato che posso rialzarmi, che ce la faccio, che posso farcela anche quando mi pare di no, che so scavalcare, con fatica immane e pari paura, le onde che arrivano sempre più veloci e una dietro l’altra.
Che chi vuole c’è e nuota con te, più che dirti come si nuota dalla sua comoda barchetta. Che quando mi sento persa posso ripartire, magari da un gradino che mi pare più basso e che poi scopro essere comunque solido. E se sia più in basso, sticazzi. Il magico potere dello sticazzi: una conquista, per me.

Cosa vorrei, oggi? Stabilità, calma, deporre le armi.
Sono stanca, fiera di me ma stanca, affaticata. Mi servirebbe una piazzola di sosta, che attualmente ancora non vedo ma che prima o poi dovrà pur esserci… non so dove, non so quando, né chi ci sarà e forse non è così importante saperlo. Alla fine la vita è il viaggio, e forse questo è solo un momento in cui è tutto più pesante e nebuloso, tutto qui. L’importante è non concedersi una pausa troppo lunga, soprattutto da se stessi.

Ho sempre creduto che i momenti in cui pensi di aver toccato il fondo sono quelli in cui cresci di più, in cui sei più a contatto con quell’essenza che troppe volte ti sfugge. Ne ho avuto la conferma, e forse, quando mi concedo di ammetterlo, sono più forte oggi di un anno fa. Con qualche segno in più, con qualche sogno in meno, con giorni alterni come i parcheggi: navigo più a vista, in fondo.

E va bene così, se una pace e una serenità sono possibili sono una mia responsabilità: ho passato una vita a demandarle e a pensare di doverle meritare, adesso so che devo concedermele io. E no, è tutt’altro che facile per una cresciuta con l’idea che se non hai è perché non meriti, e non perché non sai concederti qualcosa o ancora non sai chiederlo, o anche solo perché non hai vicino le persone giuste. Oggi non aspetto che gli altri capiscano e interpretino: chiedo, litigo, discuto, combatto e controbatto. Perché se dai agli altri il ruolo di stabilire se meriti qualcosa, permetti loro di stabilire il tuo valore… e io, semplicemente, ho deciso di assegnarmelo, con onestà ed obiettività, da sola.


Sous l'oeil de l'ange
Je suis venu te dire que j'ai su rester fort
Sous l'oeil de l'ange
Je suis venu te dire qu'ils n'ont rien vu encore
Sous l'oeil de l'ange
Je suis venu te dire que j'ai trouver la paix
Sous l'oeil de l'ange
J'ai su pardonner et j'ai su le chanter

[K’maro – Sous l’oeil de l’ange]

venerdì 26 maggio 2017

Vaccini e riflessioni





Come la penso sui vaccini è cosa nota: la salvaguardia della comunità viene prima di ogni libertà del singolo che possa metterla a rischio.
Ammetto, senza problemi, di non essermi mai posta tanti dubbi sui benefici dei vaccini: il semplice vaccino anti influenzale (tra le altre millemila medicine che prendeva) ha permesso a mio padre, la cui situazione era ben più che compromessa a livello circolatorio e cardiaco già nel lontano 1998, di vedermi laureata, di potermi accompagnare a mettere una firma importante, di conoscere e amare i suoi nipoti.

Poi sono andata a vivere in Africa, dove i vaccini hanno avuto un ruolo fondamentale per la mia sicurezza e per quella di tutta la Tana e dove i vaccini hanno ancora il ruolo, che tocchi veramente con mano, di salvare tante vite.
L’esperienza africana mi ha fatto interrogare, fin dai primissimi tempi, su quanto noi occidentali diamo per scontata  una prevenzione delle malattie e una sicurezza data da un’immunità di gruppo che permette(va, a conti fatti) di poter fare dei distinguo e scelte diverse.
Oggi, nel nostro civilissimo Paese, la situazione è ben diversa.

La libertà di scelta ha portato a risultati critici, che hanno indotto un’azione di forza limitativa del libero arbitrio per questioni di sanità pubblica.
Da vaccinista quale sono, ora sono contenta?
, perché ravviso in tutto questo una volontà di tutelare chi non può tutelarsi (immunodepressi, bambini non ancora vaccinati, malati, persone che nonostante il vaccino non hanno sviluppato gli anticorpi).
No, perché se si è arrivati a tutto questo vuol dire che qualcosa non ha funzionato e la limitazione di una libertà di scelta è qualcosa che storicamente e filosoficamente mi turba non poco: abbiamo veramente gestito così male il libero arbitrio da portare il nostro Stato a togliercelo? Non è una perdita che abbiamo inflitto a noi stessi?

La tentazione fortissima, in cui sono caduta anche io, è quella di bollare chi ha scelto di non vaccinare come “idiota”. E ce ne sono, eh, come per ogni convinzione: del resto c’è anche chi è disposto a credere ancora che la Terra sia piatta, per dire.
Però i cosiddetti antivax non sono tutti idioti: ne conosco personalmente alcuni di cui stimo la grande intelligenza, cui voglio bene e con cui ho legami importanti e profondi.

Tutto questo mi ha portato a pormi interrogativi, a cercare di capire senza accontentarmi del banale “complottisti” o del semplice “idioti”.

La rete, questa grande piazza di paese allargata, ha avuto e ha il grande merito di creare contatti tra le persone, di mettere a disposizione di chiunque, al di là del proprio titolo di studio o delle sue conoscenze specifiche in qualunque ambito, una varietà di informazioni incredibilmente vasta.
Questo significa che in rete, o grazie alla rete, troverai sempre chi ti darà ragione della tua idea o delle tue paure, qualunque esse siano.

Una informazione così vasta e non chiara porta a mille dubbi e ad altrettante paranoie, di ogni tipo (basti pensare all’allarmismo sull’Ebola in occidente). Una volta le cose così le trovavi nella posta di Cioè, oggi le trovi in gruppi Facebook, validate da condivisioni e like e si sa che qualsiasi cosa giri sui social non sempre viene controllata prima di essere ricondivisa; viene manipolata (anche in assoluta buona fede, eh), strumentalizzata, proposta per uno scopo (dal più banale “vendere un prodotto” al più sudbolo “instillare un dubbio”).
Sono la nostra storia, la nostra sensibilità, le nostre aspettative, i nostri ideali a farci scegliere in cosa credere. È anche il nostro carattere.

Sull’argomento vaccini, per restare in tema, in rete si trova di tutto.

Una delle cose che, confrontandomi con persone che hanno scelto di non vaccinare, esce più spesso è la poca fiducia nelle istituzioni, a livello globale. L’idea che dietro ad ogni scelta che viene fatta per noi ci sia la volontà di danneggiarci, di renderci schiavi, di imbrogliarci. Non sono così ingenua e ciecamente fiduciosa da non credere che su alcuni aspetti la cosa abbia un senso, peraltro.

In questo clima di sfiducia è ovvio come messaggi complottistici possano trovare terreno fertile, a livello politico ci sono intere fazioni che ci campano per dire, e diffondano sfiducia a tutto campo.
Se teorie antivax oggi in campo medico vengono confutate a livello macroscopico e scientifico, dati alla mano, per alcuni è ovvio che i dati siano falsati, che ci sia una congiura. Basta guardare il caso di medici antivaccinisti che sono stati (giustamente) radiati dall’Ordine dei Medici: ormai sono martiri. Per quanto mi riguarda, se non segui un protocollo scientifico non sei un medico ma uno stregone e ti prendo per tale, ma non per tutti è così e più che bollarli come idioti senza cervello ci sarebbe da interrogarsi sul perché.

C’è, sempre a mio parere, sempre di più, una gran voglia di essere “contro”, di distinguersi, di non seguire la massa perché la massa è diventata quasi il male per antonomasia. Una voglia di affermarsi e dire “io mi sono informato anche da chi la pensa diversamente e ho valutato”. Il ché è giusto e sano ma pone diversi interrogativi.

Chi mi dice che quelle fonti siano sicure? Che non ci sia anche lì una manipolazione di dati, o peggio ancora la creazione di dati falsi, per perseguire uno scopo?

Lo scopo di una campagna antivaccini (ma anche di tante campagne che minano la fiducia nella scelta di massa), uno dei tanti, potrebbe essere anche quello di renderci ribelli rispetto alle istituzioni, di destabilizzare talmente tanto l’uomo da renderlo individualista e quindi più controllabile. Un po’ subdolo? Non mi stupirebbe, non mi stupisce più nulla ormai.
Chi mi dice, in pratica, che questo complottismo non sia altro che un complotto esso stesso per renderci soli e presuntuosi di cose che non sappiamo, basandosi su ignoranza (non nel senso negativo, quanto etimologico) e qualunquismo (cosa che tira tanto, altroché) per poi farci scivolare in una facile predisposizione ad un dominio senza leggi e più subdolo da individuare come tale?

Siamo veramente in grado, in assenza di studi nostri pregressi specifici, di valutare la veridicità di tesi che si schierano contro le organizzazioni sanitarie mondiali?

Si può dire: eh ma quelli che hanno istillato il dubbio sui vaccini e creato allarmismi sono medici. Ok. Ma sono tutti immunologi o specializzati in questo campo?
Io sono un architetto, ho fatto anche due o tre esami specifici (con interesse e profitto) sulla statica, la scienza e la tecnica delle costruzioni, ma non ho proseguito quella strada e non ho approfondito a livello teorico e sul campo l’argomento. Ciò mi rende perfettamente in grado, sicuramente molto più dell’uomo della strada, di capire di cosa si parli quando si parla di costruzione di un ponte, per esempio… ma ben altra cosa è essere in grado di progettarlo in modo che regga il peso di tutte le persone che ci passeranno sopra e devono poterlo fare in tutta sicurezza. Dovrei riprendere a studiare, fare gavetta, affiancarmi a persone più competenti di me, insomma (e sarebbe quantomeno etico se lo facessi prima di dare consigli, informazioni e direttive in tal senso).
Che un dentista, per esempio, ma per un medico generico per me vale lo stesso, si pronunci sui vaccini io lo trovo ridicolo: può farlo come uomo (e il suo parere varrebbe quanto il mio), di certo sa meglio di me di cosa di sta parlando, ma non è preparato in maniera specifica tanto da prendersi la responsabilità di affermare cose dandole per certe e di dare soprattutto alle sue opinioni un peso che non possono avere nelle scelte altrui.
 

Perché proprio in questo campo c’è così tanta confusione e si è pronti a bollare per malafede ogni protocollo tradizionale?

Perché, secondo me, c’è bisogno di trovare un colpevole quando capitano imprevisti e cose brutte, soprattutto ai nostri figli.
Il genitore che si trova davanti una diagnosi di autismo, in un bimbo che aveva sempre visto normale, sbrocca, come si direbbe a Roma, e ne ha tutte le ragioni. E per quanto le scoperte attuali vedano l’autismo come malattia a componente genetico, guarderà sempre con sospetto al vaccino, alla medicina, all’intero Ministero della salute, quando non alla Comunità Scientifica Internazionale. Ingiusto? Sì, ma comprensibilissimo. Se poi ci mettiamo medici (?) che, in barba alle evidenze scientifiche, gli dicono che sì, l’autismo di suo figlio è stato causato dal vaccino (perché è una risposta: non vera, non comprovata… ma una risposta che non lo vede “colpevole” di avergli portato un gene “malato”), il danno è fatto.

Trattandosi di salute, inoltre, non siamo inclini a perdonare l’errore e perdere fiducia può essere facile, me ne rendo conto perché ci sono passata anche io con i medici ivoriani la cui superficialità mi aveva portato ad una setticemia perciò cerco di non sottovalutare il fattore “storia personale” nelle scelte che ognuno fa, convinto ovviamente che siano le migliori. Spero sempre, e lo dico in assoluta sincerità, che nessuno di noi genitori abbia a pentirsi delle scelte fatte per presunzione e superficialità (cosa capitata a me, fortunatamente per una cosa non grave).

Il problema è che oggi grazie al complottismo, alle informazioni confuse, riportate, prese per vere al di là di evidenze scientifiche, le scelte sono abbastanza obbligate, e non c’è per niente da gioirne, nonostante le evidenze diano ragione ad una fazione piuttosto che all’altra.
Insomma, il navigare in questo mare oggi mi pare tutt’altro che dolce.

venerdì 21 aprile 2017

Dieci anni





Dieci anni.
Due cifre.

Del giorno in cui ho compiuto dieci anni non ricordo nulla, ma ho ben presente mio padre che mi diceva, contento ed emozionato, “sei passata alle due cifre”.
Perché quello è, un passaggio.

In questi primi dieci anni anni di vita, in queste due cifre, c’è tutto quello che ti ha portato da un frugoletto minuscolo a un ragazzino indipendente: hai imparato ad esprimerti, a camminare, a ragionare e a collegare i pensieri, a convivere con le tue emozioni; hai scoperto la diversità e ne hai fatto tesoro, hai scoperto di avere un corpo e come funziona, ti sei confrontato con interessi, predisposizioni, difficoltà.
Hai visto nascere e hai visto morire. Ti sei innamorato per la prima volta. Hai capito la stima e il disprezzo.
Hai imparato a fare la spesa da solo, a calcolare il resto, ad attraversare la strada, a portare il cane a spasso, ad andare dal barbiere.
Hai accolto con gioia l’autonomia che ti viene concessa accettandone la responsabilità; hai rispettato regole che ti sembrano sensate e hai imparato a contestare ciò che non ti sembra giusto.
Hai imparato a chiedere scusa.
Hai imparato ad andare in bicicletta, testando il tuo equilibrio; a nuotare, riconoscendo un elemento che ti appartiene; ad usare strumenti elettronici, ragionando su ciò che comportano le tue azioni.
Hai imparato a leggere e scrivere, in quasi tre lingue diverse; a contare, a costruire cose che abbiano uno scopo.
Hai imparato a raccontare ciò che sai, a seguire le tue curiosità, a chiedere per avere risposte oneste e puntuali.
Hai imparato a vestirti scegliendo cosa indossare per le diverse occasioni, a farti la doccia ed asciugarti i capelli da solo. A sbucciarti la mela, a tagliare la carne, a prepararti il tè, a fare il caffè a chi te lo chiede. Ad accenderti la stufa se hai freddo e il condizionatore se hai caldo.

Ci hai regalato 10 anni di meraviglia, paure, consapevolezze, sorrisi e pochi pianti. Uno spettacolo unico che stupendamente varia e si modella ogni giorno. Ci hai insegnato la responsabilità, la conseguenza delle scelte, la paura di sbagliare non sulla propria pelle. Ci hai regalato un passaggio importante, uno senza cifre.

Tutto in queste meravigliose due cifre, Piergiorgio.
In questi primi dieci anni hai nutrito il tuo seme e permesso si nutrisse il terreno da cui diventerai un albero. Il tuo albero, non quello che gli altri si aspettano tu possa diventare.

Nessun altro periodo della tua vita ti vedrà sviluppare così tante capacità e scoprire nuove cose. Ti aspetta meno da imparare e più da esplorare, perfezionare, comprendere.
E noi saremo lì, a fare come sempre il tifo per te.

giovedì 20 aprile 2017

Ricomincia da qui...


Dai una spinta a te stessa e poi ondeggi fino a trovare un equilibrio.
Un po’ di qua, un po’ di là senza una destinazione stabile, in un moto alternato che non segue la tua volontà: una volta voli, una volta scendi.
Quello che lei voleva era la dinamica, quando aveva iniziato il percorso, quello che non aveva previsto era l’alternanza tra buio e luce e tra sorrisi e lacrime.
Si dice sempre che si va dove si vuole andare, ma ci vuole forza. Fisica e di volontà.
Per sapere dove si sta andando in fondo c’è bisogno di una destinazione, altrimenti è semplicemente destino e farsi trasportare tra giorni che diventano mesi, o anni.

Lei si guarda intorno e si chiede cosa ci faccia lì e chi è quella persona che la guarda dallo specchio.
Intorno uno sfondo di gente chiassosa e indaffarata, che sembra aver chiaro ciò che a lei è troppo che sfugge: uno scopo.

Un passo dopo l’altro, tra gradini affollati e parole che le sfuggono, esce dal metrò e cerca una strada qualsiasi in cui riversare i suoi pensieri in silenzio.
Pensa a Lui, perso ormai troppe stazioni fa. Pensa a Lei e ai loro sorrisi freschi e ancora acerbi. Le mancano, entrambi. Pensa a se stessa e un vuoto cupo le nasce dentro. Si manca anche lei.

Perché è andata via? La assale la paura, quella che ha provato quando ha visto una certezza nello sguardo di Lui; la assale l’angoscia di aver fatto una cazzata. Se potesse scegliere un regalo dall’universo, chiederebbe di uscire da questo tunnel di paura e rimpianti o quantomeno di trovare quello tra i due che le pesa di più nel cuore, e capire. Invece è avviluppata tra ciò che la spaventa e ciò che le manca.

Si è osservata, prima. Non lo fa mai, ma è stata colta a tradimento da uno specchio che non si aspettava… cosa ci fa uno specchio in una fermata della metro in periferia?
Oggettivamente è ancora bella, forse qualche etto in meno ma i vestiti le calano addosso ancora bene e senza ombre brutte. Lui glielo diceva sempre: il tuo corpo è un’alternanza perfetta di chiaroscuri, non permettere mai che arrivino le ombre.
Le scappa un sorriso, a ripensare a quando quel corpo era una mappa geografica di scoperte e si completava con un altro. E forse è quel sorriso, che colora improvvisamente la stradina deserta.
Esce ogni giorno, lavora, gestisce una quotidianità indaffarata, ma è troppo tempo che non si lascia inzuppare un po’ di colori e stagioni. Li vede, li avverte, ma non li vive da un po’.
Chi vuole punire? Lui per aver cercato di fermarla e poi averle permesso di andar via? Lei per averle promesso un tempo infinito e averle dato solo giorni? Se stessa?

Alla fine capirai che per quanto tu possa far pagare agli altri le tue insicurezze, la punizione peggiore la riserverai a te stessa.
Le parole di sua madre le rimbombano della mente e come in un flipper toccano posti che si illuminano di sentimenti, emozioni, paure, rimorsi e rimpianti. Le manca, ma non è capace di dirglielo. Le manca, ed è una mancanza che la attraversa tutta e la lascia vuota di assenza e piena d’amore.
È quella sensazione o il sole, a scaldarla? Sente la pelle come qualcosa di più vivo, pulsante, fremente.

Persa tra i pensieri, non ha la minima idea di dove sia, né di come ci sia arrivata. Ha seguito tanti percorsi nella sua mente da aver perso il senso di quelli dei piedi.
Si è presa un giorno di pausa, e come fa tutte le volte che non lavora, è venuta ad esplorare la periferia della città. Non le interessa il centro, fatto di scintillii e cose scontate, preferisce zone dove la vita è imperfetta, sudata, viva, vera. Come la sua, che però come un po’ in tutti gli aspetti, si colloca in limbo intermedio, quello di chi ha paura di prendere posizione e definirsi.

Scoprire dove si trova sarebbe un attimo, ma lei non vuole certezze. Prima o poi troverà un riferimento, ma adesso a cosa le serve sapere?
“Mi dai il tuo telefono un attimo?” è una voce che le pare di riconoscere, e si volta.
Ed è Lui, potrebbe essere Lui, le sembra dannatamente Lui.
La mente si affolla talmente tanto di parole di non riuscire a farne uscire neanche una ma allunga la mano, dà il telefono ad una mano sconosciuta eppure forse no.
“Mettiti lì, appoggiati al muro, lasciati andare, sorridi”
Non sa perché, ma lo fa. Non le viene da sorridere, poi ripensa a quanto surreale sembri tutto questo, a quanto si senta pazza, a quanto forse lo sia stata a dare il suo telefono a qualcuno che probabilmente tra due secondi scapperà via… e ride. Ride di cuore, di se stessa, della sua follia, dell’aver scambiato quello sconosciuto per Lui.

È un attimo, e il telefono è di nuovo nella sua mano.
Lo sconosciuto la guarda, sorride. “Quando vuoi ricominciare, ricomincia sempre da qui”.
Poi va via, lasciandola orfana di un’illusione a fissare il suo telefono come se scottasse, come se non fosse più solo il suo. Cosa ha fatto quel ragazzo col suo cellulare? Non lo sa, stava ridendo, pensando, sorridendo.

Si siede su una panchina lì davanti, guarda l’elenco delle telefonate, delle mail, i messaggi, le chat… Nulla che dica che qualcuno è stato lì. Poi apre le foto, per abitudine, distratta, indolente, annoiata.
Ed è lì che si vede con gli occhi di Lui, come nessun altro l’ha vista mai.
Si gira, vede il muro, ride.
Ricomincia sempre da qui”. Capisce, piange.

progetto fotografia e scrittura delle Instamamme (photo credit Francesca Guerrini)


Era davvero Lui? Era qualcuno le ha visto dentro come fosse trasparente.
Si stringe al dubbio come a qualcosa di prezioso e caldo e si incammina, su un cammino decisamente nuovo.



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martedì 11 aprile 2017

Di voci, confronti e crescita




È la voce, quella che prima sparisce.
Ricordi le parole, i gesti, le espressioni, il viso, il modo di camminare, i gusti, il carattere… ma la voce ti lascia sempre più orfano.

È una cosa che atterrisce, che ti svuota. È l’esatta misura di quanto si perda la persona e non ciò che ci ha lasciato; è la consapevolezza che sei pieno di quella persona ma che non potrai mai più avere uno scambio con lei, che la quota parte della tua crescita che devi a lei si è fermata.

È qualcosa che ti colpisce alle spalle, inaspettatamente, quando stai facendo cose banali e le tue sinapsi ti portano un ricordo qualunque, cretino, banale… e vorresti solo avere un giorno, un’ora, anche un solo minuto di quella voce, di quella possibilità.

Sei ciò che sei anche in virtù di ciò che ti hanno dato, delle persone che ti hanno formato, che hai incontrato, che hai lasciato entrare. Il regalo che la vita ci fa è di rendere tutto questo duraturo a prescindere da tutto: lontananza, scazzi, la stessa morte. La cosa più pesante della morte di una persona è che non sia più possibile l’evoluzione, il confronto diretto.

Mio padre mi manca come mi mancherebbe un organo interno non vitale: vivi lo stesso, ma non è la stessa cosa. Sono ancora nella fase in cui si cerca un nuovo equilibrio, mi sorprendo ancora a pensare di raccontargli ciò che mi accade per avere consigli e conforto e mi accorgo che le risposte devo cercarmele in ciò che di lui mi ha dato negli anni, ma mi manca la voce e piango come una bambina in momenti intempestivi e improvvisi.

Non ho pianto mio padre, non abbastanza. Troppo dolore, troppe incombenze, troppa la maledetta razionalità che mi ha insegnato, o che ho ereditato da lui.
Non posso permettermi di rischiare di schiantarmi in mille pezzi, perché c’è chi conta su di me e merita di avermi intera.
Se c’è una cosa che mio padre mi ha insegnato, con i consigli e soprattutto con l’esempio, è che la vita va avanti, non aspetta che tu ti riprenda, che devi mantenere lucidità e ritrovare in fretta un equilibrio anche se i piatti della tua bilancia sono stati scossi violentemente. Perché non si vive mai solo per se stessi e non si ha modo e agio di perdersi se si è importanti per qualcuno.

Ogni tanto trabocco, sono umana, certo. Non la prendo come una sconfitta ma piuttosto come un fatto naturale, e vado avanti. Ogni tanto riesco anche ad essere felice senza sensi di colpa.

Non ho avuto una vita facile, di ciò che sono non mi è stato regalato nulla e ne sono orgogliosa e forse è anche questo che mi aiuta: so che ho superato tante cose difficili, alcune molto brutte. So che se oggi sono qui è anche in virtù di quello che è stato, nel bene e anche nel male.

La vita in fondo non è che la continua evoluzione di se stessi rispetto a fatti contingenti, imprevisti, occasioni, scelte.
Una volta ero proiettata sul futuro, e perdevo di vista il presente.
Una volta ero cristallizzata nel passato, e non pensavo di meritarmi un presente.
Oggi so che la vita è oggi, adesso, questo istante. Posso programmare, ma c’è sempre il margine di ciò che accade intorno. Ho imparato ad accettarlo, forse è stato l’ultimo regalo di mio padre.
Ma la voce, dio, la voce è ancora una ferita aperta.